Qui c’é bisogno di stomaco per viverci | Scienziati stanno indagando sui motivi delle mancate esplosioni di queste specie

Abitanti delle profondità (Pexels foto) - www.marinecue.it
Tra difficoltà estreme e sorprese genetiche, la vita qui nasconde più misteri (e problemi) di quanto immaginiamo.
Negli angoli più remoti del nostro pianeta, lì dove la luce non arriva e la pressione schiaccia ogni cosa, ci sono creature che sembrano uscite da un altro mondo. Roba da togliere il fiato. In questi luoghi estremi, la vita ha trovato comunque il modo di prosperare, adattandosi a condizioni che definire proibitive è quasi riduttivo.
Ogni viaggio qui è come una spedizione su un altro pianeta. Studiare ciò che vive laggiù è come aprire una finestra su possibilità che nemmeno immaginiamo. Gli scienziati cercano di raccogliere pezzi di questo strano puzzle biologico.
Ogni campione, ogni osservazione, può cambiare quello che sappiamo sull’evoluzione e sulla capacità della vita di resistere a pressioni pazzesche. Eppure, quello che si scopre sotto migliaia di metri d’acqua spesso va ben oltre la semplice biologia.
Le forme di vita, con i loro adattamenti incredibili, ci raccontano storie di sopravvivenza che sfidano la logica. Ma ci ricordano anche che l’evoluzione non è un percorso lineare o prevedibile… anzi, a volte la natura si diverte a sorprendere. Però, in mezzo a tutto questo spettacolo naturale, c’è una nota stonata.
Adattamenti genetici sotto pressione estrema
Una ricerca fresca fresca, pubblicata su Cell, ha messo sotto la lente undici specie di pesci che vivono nelle profondità estreme, tipo la Fossa delle Marianne e altri abissi dell’oceano Indiano. Analizzando il loro DNA, gli scienziati hanno fatto una scoperta notevole: nonostante arrivino da linee evolutive diverse e si siano tuffati nell’ambiente abissale in epoche differenti, tutti avevano una mutazione identica nel gene Rtf1.
Questa mutazione, che regola come viene letto il DNA, si è verificata almeno nove volte in specie diverse. Un caso super chiaro di evoluzione convergente, come lo chiama Kun Wang, ecologo della Northwestern Polytechnical University. In pratica, le condizioni estreme degli abissi hanno “costretto” questi pesci a trovare soluzioni simili, anche se erano partiti da punti completamente diversi nella storia della vita. Ma c’è stato anche un lato negativo emerso da questi studi.

L’impronta umana negli abissi
Durante le spedizioni, purtroppo, non si sono trovate solo meraviglie naturali. I ricercatori hanno scoperto inquinanti industriali belli evidenti: nei fegati dei pesci di profondità e nei sedimenti tirati su da oltre 10.000 metri nella Fossa delle Marianne c’erano sostanze come i PCB e i PBDE. Questi composti chimici, che dovrebbero essere fuori uso da decenni, evidentemente sono finiti dove nessuno si aspettava.
La cosa fa abbastanza impressione. Anche nei luoghi più sperduti del pianeta, l’impronta dell’attività umana si fa sentire. Queste scoperte, che vanno ad aggiungersi a quelle sui microplastiche già note, raccontano una storia poco rassicurante: nemmeno gli abissi più profondi sono davvero fuori dalla nostra portata — o dal nostro impatto.