Delta del Niger (Depositphotos foto) - www.marinecue.it
Ogni settimana, immagini satellitari rivelano nuovi sversamenti di petrolio che devastano il fragile ecosistema del Delta del Niger.
Il Delta del Niger è uno di quei luoghi che sembrano usciti da un documentario sulla natura incontaminata: mangrovie immense, biodiversità da capogiro, un ecosistema fragile ma incredibilmente ricco. È anche la terza zona umida più grande del pianeta e ospita la più estesa foresta di mangrovie dell’Africa. Ma tutto questo sta lentamente scomparendo sotto una coltre di petrolio.
Questa regione galleggia letteralmente sopra una delle riserve di greggio più grandi del continente africano, ed è proprio l’oro nero che ha reso la Nigeria dipendente dall’industria petrolifera. Da quando sono iniziate le trivellazioni, negli anni ’50, il prezzo da pagare è stato altissimo: più di 13 milioni di barili di petrolio sono finiti dispersi nell’ambiente, devastando la natura e mettendo a rischio la salute di chi vive qui.
Parliamo di quasi 30 milioni di persone, appartenenti a più di 40 gruppi etnici diversi, che da generazioni sopravvivono grazie all’agricoltura e alla pesca. Per loro, la terra e l’acqua non sono solo una fonte di reddito, ma il cuore della loro cultura e identità. Ora però, molti campi sono avvelenati e le acque sono piene di sostanze tossiche. Pesci e raccolti scarseggiano, e con loro anche la speranza di un futuro dignitoso.
A peggiorare le cose c’è il fatto che gli oleodotti che attraversano il Delta sono spesso vecchi, mal mantenuti e scarsamente sorvegliati. Perdite e sversamenti vengono scoperti troppo tardi, quando ormai i danni sono irreversibili. Il problema? La gestione del disastro è lenta e inefficace: si parla di quantità di petrolio disperse, ma non si monitora seriamente il legame diretto con il degrado ambientale.
Ora, però, qualcosa sta cambiando. Un team di ricerca internazionale, guidato dall’Università di Galway, ha trovato un modo per tracciare in modo preciso l’estensione del disastro. Hanno usato dati radar satellitari, combinati con intelligenza artificiale e tecnologie di imaging medico, per creare una mappa dettagliata degli oleodotti e delle aree più colpite dagli sversamenti. I risultati? Scioccanti. Lo studio, pubblicato su Remote Sensing, ha rivelato un tasso di perdita di 5.644 ettari di foresta di mangrovie all’anno. Per capirci meglio: ogni anno scompare una superficie pari a 17 volte Central Park o, se vogliamo metterla su scala sportiva, 28 campi da calcio GAA ogni giorno.
Ma la cosa più inquietante è che il team ha scoperto nuove perdite non ancora segnalate, specialmente nella zona a nord di Bille, un’area costiera già martoriata dall’inquinamento. Questo significa che il problema è ancora più vasto di quanto si pensasse e che molte fuoriuscite passano completamente sotto il radar delle autorità.
Ora, grazie a questa nuova tecnologia, è possibile identificare i punti critici della rete petrolifera e intervenire più rapidamente. Ma non solo: le comunità locali, finalmente, hanno un’arma in più per pretendere trasparenza dalle compagnie petrolifere e dalle istituzioni. Sapere con esattezza dove si verificano gli sversamenti aiuterà anche a combattere il fenomeno del vandalismo e dei furti di petrolio, che spesso peggiorano ancora di più la situazione.
Il passo avanti fatto dai ricercatori è enorme. Questa tecnologia permette di superare uno dei principali ostacoli al monitoraggio ambientale del Delta, ovvero la costante copertura nuvolosa, che finora ha reso difficile osservare il territorio dallo spazio. Se usata nel modo giusto, questa innovazione potrebbe finalmente spingere verso politiche ambientali più serie e progetti di recupero concreti, prima che il Delta del Niger diventi solo un’altra vittima dell’avidità umana.
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