L’ingegneria, sebbene si pensi sempre il contrario, è molto più semplice di quanto sembri, essendo costruita da pochi e semplici e concetti che si inseguono e rinnovano, venendo poi applicati e calati nella realtà pratica e in ogni settore, anche quello più inaspettato, come lo sport. Infatti, in questo articolo parleremo di ingegneria applicata allo sport: indagheremo come i semplici concetti di attrito e galleggiabilità possano essere applicati a tre differenti competizioni sportive con risvolti decisamente sorprendenti.
Sviluppo sportivo ed evoluzione tecnologica, quindi ingegneria e sport, non sono due argomenti distinti e indipendenti come un’analisi superficiale potrebbe lasciar pensare. La prestazione sportiva, qualunque essa sia, quindi, non solo intesa come manifestazione della tecnologia umana (si pensi alla formula uno), è fortemente condizionata dallo stato scientifico ed ingegneristico dell’arte e, gli esempi, sono molto più frequenti di quanto si possa pensare.
Mentre in una competizione come quella della su citata Formula Uno è facile individuare il nesso tra i due mondi, d’altronde i gran premi vengono vinti prima in fase di progettazione e poi in pista, risulta molto difficile cogliere il nesso quando si tratta di una prestazione atletica. Dato che si parla di mare e, quindi, di acqua, restiamo “sul bagnato” e pensiamo al nuoto.
Sebbene durante le lezioni di Architettura Navale la fluidodinamica mi venne mostrata e spiegata attraverso i video delle bracciate dell’enfant prodige Benedetta Pilato nessuno, almeno che io sappia, ha lanciato un’analisi fluidodinamica sulla nazionale di nuoto italiana per individuare la miglior bracciata possibile. Anche qui, quindi, la vittoria inizia “fuori dalla vasca”, in particolare nei laboratori. In questa ottica più di un decennio fa, nel 2008 per l’esattezza, furono immessi sul mercato una nuova variante dei cosiddetti costumoni (che vantano il loro battesimo di fuoco nel 1999 durante gli europei di Istanbul) realizzati in poliuretano. Ebbe così inizio una vera e propria rivoluzione.
Nessuno si sarebbe mai immaginato che la Speedo sarebbe stata capace di dare vita, grazie anche alla collaborazione con la NASA e all’Australian Insitute of Sport, a quella che fu una vera “macchina da record”. Infatti, solo quell’anno furono battuti ben 55 record in vasca lunga. Il tutto non finì qui: presa coscienza dell’affidabilità e dell’applicabilità di questo materiale nel settore del nuoto, gli altri produttori, pur di non rimanere fermi e al verde sul mercato, iniziarono la progettazione prima e la vendita poi di nuovi e sempre più all’avanguardia costumi. Così, appena un anno dopo, quindi nel 2009, ai mondiali di Roma gli sportivi dell’epoca annientarono altri ben 43 record.
Nulla volendo togliere al merito di quelli che sono e rimarranno sempre dei grandi atleti, il nesso temporale e statistico tra la pioggia di record e il costumone in poliuretano era troppo evidente. In questo panorama surreale dominato da polemiche e minacce (l’allora plurimedagliato nuotatore Michael Phelps minacciò il ritiro) nel 2010, dopo 48 record infranti in appena due anni, la FINA fermò tutto. Basta poliuretano, si torna al tessile. Una domanda sorge spontanea, come ha potuto il semplice poliuretano avere un impatto così devastante?
La risposta risiede in una semplice ma decisiva parola, galleggiabilità: gli inserti di poliuretano garantiscono ed assicurano un galleggiamento agevolato, riducendo il volume immerso dell’atleta e, conseguentemente, l’attrito che incontra, consentendo una nuotata più fluida e semplice.
A questo punto cambiamo argomento ma non ambiente, restiamo sempre in acqua ma affrontiamo il significato della parola offshore. Questo termine è sempre associato, almeno mentalmente, alle immagini delle imponenti piattaforme petrolifere nel profondo Mar del Nord o del Golfo del Messico, eppure, questo sta ad indicare anche una competizione sportiva acquatica del tutto speculare alla Formula Uno e che va sotto il nome di Offshore Class One: la prima competizione di motoscafi veloci e, visivamente parlando, una delle competizioni acquatiche più spettacolari.
Sebbene le sue radici risalgano addirittura al XIX secolo, quando fu indetta una gara a Nizza, la prima competizione ufficialmente riconosciuta fu la traversata di 22 miglia da Calais a Dover, mentre nel 1956 iniziò l’era moderna della Class One grazie alla gara Miami-Nassau. I mezzi che prendono parte a questa competizione sono una delle massime espressioni tecnologiche in ambito sportivo: le velocità raggiunte toccano i 257km/h e è semplice rendersi conto di come l’ottenimento di queste velocità in un mezzo viscoso come l’acqua necessiti di soluzioni tecnologiche estremamente all’avanguardia.
Similmente a quanto si è visto ed analizzato prima in merito al nuoto, anche in questo caso l’obiettivo è quello di minimizzare la superficie di contatto tra il mezzo e l’acqua, quindi ridurre il volume immerso. Il risultato lo si ottiene attraverso differenti strade, architettoniche e tecnologiche. Sul piano architettonico la soluzione adottata è quella dei catamarani, mezzi navali costituiti da due semi-carene collegate dal cosiddetto cross-deck, in questo modo, a parità di superficie il volume immerso è decisamente ridotto.
Oltre ad avere ovvi vantaggi idrodinamici una soluzione di questo tipo permette anche di ottenere mezzi più leggeri e, conseguentemente, il raggiungimento di velocità così alte avviene con minore (si fa per dire) sforzo. Allo stesso tempo l’ottenimento di una ridotta superficie bagnata è ottenuto spostando quanto più pesi possibili verso poppa, in maniera tale da “impennare” il mezzo facendo in modo che solo l’estrema porzioncina poppiera resti effettivamente immersa.
L’ottenimento di tale soluzione è ottenuto facilmente grazie al collocamento, in questa zona, dell’apparato propulsivo. Ovviamente, una tale estremizzazione del concetto di riduzione della superficie bagnata porta ad una notevole instabilità del mezzo, soprattutto a velocità così alte, proprio per questo è indispensabile l’adozione di strumenti di sicurezza e che tali imbarcazioni siano guidate solo ed esclusivamente da persone esperte ed addestrate.
Affrontiamo ora l’ultimo argomento, quello dell’hydrofoil, applicato in maniera chiara e lampante nella ben famosa America’s Cup. Anche qui il concetto di riduzione della superficie bagnata e del volume immerso è massimizzato e portato ad estrema ratio, infatti basta cercare su Google per vedere come le imbarcazioni che prendono parte a tale regata sono delle vere e proprie “barche volanti”.
In questo caso la spinta necessaria a sollevare l’imbarcazione è ottenuta grazie ad un profilo alare immerso che, venendo a investito da una corrente fluida ad una data velocità, genere da un lato una resistenza, dall’altra una spinta verticale verso l’alto, la cosiddetta portanza. Così facendo, l’intera carena è sollevata fuori dall’acqua annullando di fatto la sua resistenza al moto e permettendo l’ottenimento di velocità del tutto inimmaginabili e irraggiungibili fino a pochi anni fa.
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