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Gasdotto nel Golfo del Messico cede creando un “occhio di fuoco”

La rottura di un gasdotto nel Golfo del Messico crea quello che già in molti definiscono un occhio di fuoco. L’incidente è avvenuto ieri e le conseguenze appaiono gravi per l’ambiente. I danni all’ecosistema non sono ancora definibili con precisione ma le stime sono preoccupanti.

L’incidente del Gasdotto nel Golfo del Messico

La rottura del gasdotto nel Golfo del Messico provoca un grande incendio. Le fiamme si propagano in forma circolare, ecco perché dalle foto e dai video ormai virali, molti hanno descritto l’incendio come un occhio di fuoco. Una dichiarazione lasciata in forma anonima fa sapere che un temporale ha danneggiato in più punti la piattaforma prima che l’incendio scoppiasse.

The Sun

Il gasdotto nel Golfo del Messico appartiene alla Petroleos Mexicanos, una compagnia petrolifera pubblica messicana che risale al giugno 1938. Dopo l’incidente, la Petroleos Mexicanos chiude le valvole del gasdotto nel Golfo del Messico e in questo momento ne indaga le cause. L’azienda ha già dovuto rimediare ad altri incidenti e di certo non gode di una buona nomea. È una delle compagnie petrolifere più indebitate al mondo. Nel 2019, l’ex dirigente Emilio Lozoya insieme alla moglie, è stato estradato dalla Spagna verso il Messico a causa di pesanti accuse per corruzione.

I soccorsi domano l’incendio e comincia la stima dei danni

Il disastro è avvenuto ad ovest dello Yucatan, nelle vicinanze della piattaforma petrolifera Ku Maloob Zaap, la più grande di proprietà della Petroleos Mexicanos. Difatti la piattaforma petrolifera Ku Maloob Zaap produce da sola circa 680 mila barili di greggio al giorno su 1.7 milioni totali della Petroleos Mexicanos. Dopo oltre cinque ore e l’impiego di diversi mezzi marini, i cannoni ad acqua e azoto domano le fiamme. La stessa compagnia messicana è intervenuta al fianco dei soccorritori con navi specializzate al contrasto degli incendi.

L’azienda, anche nota col nome di Pemex, comunica che non ci sono stati feriti tra gli operatori. Altra buona notizia arriva da Angel Carrizales, a capo dell’agenzia messicana per l’ambiente, la quale dichiara che non sono avvenuti sversamenti di petrolio. A preoccupare sono però le conseguenze di questo incendio e sale la tensione contro le trivellazioni. Secondo Miyoko Sakashita, direttrice del programma oceanico del Center for Biological Diversity, quanto accaduto è solo un assaggio perché altri incidenti sono dietro l’angolo:

“Questi orrendi disastri continueranno a danneggiare il Golfo finché non interromperemo una volta per tutte le trivellazioni offshore”.

The sun

Le altre forme di inquinamento: in primis la plastica

Quanto accaduto al gasdotto deve farci riflettere su come, l’impronta umana, possa essere dannosa e pericolosa per l’ambiente. Sono molte le vie con cui lentamente soffochiamo il nostro pianeta: dalle trivellazioni alle abitudini sbagliate. L’attività umana è causa di un forte inquinamento ambientale: plastica, tessuti, metalli, vetro, detergenti, pesticidi e rifiuti di ogni tipo, infestano gli oceani. Gli effetti sono visibili e seppure aumentino le iniziative per contrastare l’inquinamento, la situazione resta grave. Grazie al lavoro svolto finora la conoscenza e la consapevolezza è maggiore ma i processi con cui i rifiuti circolano nelle acque sono ancora poco chiari. Il primo grande ostacolo è proprio la mancanza di informazioni sulle modalità di dispersione dei rifiuti.

La plastica negli oceani è quella considerata più pericolosa, per la sua lunga durata e l’elevato volume prodotto. Le plastiche sono versatili ed economiche, ecco perché hanno trovato un vasto impiego nella società moderna. Nonostante l’inquinamento sia un tema caldo e molto discusso, molti rifiuti plastici non vengono ancora smaltiti correttamente. Le microplastiche sono in particolar modo insidiose e trovano facilmente accesso al nostro organismo. Non sono visibili ad occhio nudo ma ingerite da diversi animali di cui noi stessi ci cibiamo, entrano nel nostro corpo. A chi sta già pensando di ricorrere ad una dieta vegana diciamo che il tentativo è comunque vano. Le microplastiche si trovano anche nell’acqua e a questa non possiamo assolutamente rinunciare. L’unico modo per uscirne è comprendere la gravità del problema ed impegnarsi per risolverlo.

Christian Cione

Studente magistrale di Ingegneria Navale presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II. Scrivo articoli inerenti allo scenario marittimo e cantieristico internazionale con maggiore attenzione verso tematiche ambientali e militari.

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