Da quando l’uomo è stato in grado di viaggiare nello spazio ha sempre descritto la Terra come un’immensa palla blu. Infatti, il nostro pianeta è composto per circa il 70% di acqua, della quale però solo il 3% è dolce. Quindi perché non cercare di usare quel restante 97% in modo anche da combattere la scarsità delle risorse idriche? Da tempo viene usato il processo di osmosi inversa per farlo ma con delle limitazioni. Forse siamo di fronte a una processo innovativo per desalinizzare l’acqua di mare che permetterà di sfruttare al meglio questa risorsa.
Sul nostro pianeta sono presenti 1,4 miliardi di chilometri cubi di acqua tra salata è dolce. Il 79% dell’acqua dolce totale si trova intrappolata nelle calotte e ghiacci, il 20% nelle acque sotterranee e meno dell’1% è l’acqua dolce presente in superficie facilmente accessibile. L’acqua dolce in superficie, che rappresenta una piccolissima parte, è distribuita per il 4% nei laghi, per il 76% nell’umidità del suolo, per il 16% nel vapore acqueo, per il 2% nei fiumi e per il 2% nell’acqua degli organismi viventi. Attualmente oltre un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile. Quindi poter ottenere acqua dolce da quella salata in modo sicuro e veloce è una delle sfide più importanti.
Ottenere acqua dolce da quella salata non è, però, un’invenzione recente. Tramite il processo di osmosi inversa, da oltre 40 anni, vengono rimossi il sale e altri componenti chimici dall’acqua salmastra. Infatti, l’osmosi inversa (o RO dall’inglese Reverse Osmosis) utilizza una membrana che permette di separare soluto e solvente. In questo processo si applica alla soluzione più concentrata una pressione maggiore di quella osmotica. In questo modo si ottiene il passaggio di solvente da una soluzione più concentrata a una meno concentrata. Per realizzare quest’operazione c’è chiaramente bisogno di compiere lavoro meccanico necessario all’annullamento dell’effetto della pressione osmotica.
A tal proposito vengono utilizzati dei materiali che permettono di “setacciare” a livello molecolare. Vengono così usate membrane composite di sottili pellicole (TFC o TFM: Thin Film Composite Membrane). Sono semipermeabili e hanno la forma di una pellicola di due o più materiali stratificati.
Le membrane in poliammide sono utilizzate da decenni nella dissalazione su larga scala. Tuttavia, a causa della sottigliezza delle membrane e della loro disomogeneità interna, per gli scienziati è stato difficile determinare quali aspetti delle membrane influenzano maggiormente le loro prestazioni.
Un gruppo di scienziati dell’Università del Texas e della Pennsylvania State University ha scoperto che la principale problematica che impedisce una filtrazione ottimale è la densità e la distribuzione del materiale che conformano le membrane utilizzate nell’osmosi inversa. Quindi un materiale perfettamente omogeneo su scala nanometrica è la chiave per massimizzare la permeabilità all’acqua senza sacrificare la selettività del sale nelle membrane di desalinizzazione.
Le membrane biologiche possono raggiungere permeabilità notevolmente elevate, pur mantenendo selettività ideali, basandosi su strutture nanometriche interne ben definite sotto forma di membrana di proteine.
Gli scienziati hanno usato il microscopio elettronico della Penn University, uno dei più performanti al mondo, per realizzare una mappatura 3D della densità della membrana su scala nanometrica. Grazie a questo modello sono riusciti a simulare perfettamente il comportamento dell’acqua mentre attraversa il materiale. Attraverso l’utilizzo di questi dati, hanno anche creato un modello della struttura ideale che permetterebbe di migliorare il processo di osmosi inversa; addirittura consentirebbe di risparmiare il 40% dell’energia necessaria al processo di potabilizzazione.
Questo potrebbe essere un puto di partenza per aumentare, non solo l’accesso all’acqua potabile da parte di migliaia di persone ma anche un modo per diminuire i costi dell’agricoltura e del consumo privato.
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