Articolo a cura di Federico Bianconi.
La progettazione delle navi corazzate richiedeva un lavoro intenso e molta manodopera per la loro costruzione. Veniva impiegata la migliore tecnologia, sia per i materiali da costruzione sia per l’elettronica di bordo (inizialmente quasi del tutto assenti) che servivano a fornire potenza e difesa. Il ruolo delle corazzate consisteva nell’ingaggio di navi da guerra nemiche con il fuoco diretto o indiretto di un arsenale di cannoni. Oltre a questo si occupavano anche del bombardamento di bersagli costieri come supporto agli assalti della fanteria. Dopo la seconda guerra mondiale vennero considerate obsolete a cause delle maggiori potenzialità belliche ed operative delle portaerei.
Il primo esempio di navi corazzate risale al 1860 con “La Gloire”, costruita per la marina francese. Venne subito surclassata dalla “HMS Warrior” di proprietà britannica, prima unità da guerra in grado di riassumere tutte le caratteristiche di una nave moderna. Questa costruzione era composta da una corazza e scafo entrambi in ferro (la Gloire aveva lo scafo in legno e corazzata in ferro), compartimenti stagni, propulsione ad elica e cannoni a retrocarica con canna rigata, di dimensioni doppie rispetto alla Gloire. La HMS Warrior segnò l’inizio alla corsa agli armamenti che sarebbe proseguita di fatto fino al trattato navale di Washington del 1930, il quale limitava la corsa agli armamenti ed il dislocamento complessivo di 10160 t.
Durante la seconda guerra mondiale l’Italia disponeva di un imponente flotta di navi corazzate, occupando il quinto posto nella classifica delle marine più grandi al mondo, potendo dispiegare una notevole componente di battelli subacquei (rendendola seconda solo all’Unione Sovietica). Una delle navi corazzate ammiraglie appartenente alla Regia Marina, frutto della potenza industriale italiana dell’epoca, grazie ai materiali impiegati, la tecnica di costruzione e la tecnologia sviluppata fu la “RN Roma”, unità di grande prestigio e nave preferita di Benito Mussolini.
Venne impostata sugli scali del cantiere San Marco di Trieste (il 18 settembre 1938) e dopo il varo, avvenuto il 9 giugno 1940, il giorno prima della dichiarazione di guerra, fu inviata a Monfalcone per il completamento. Terza ed ultima unità della classe Littorio (anche nominata classe “Vittorio Veneto”), le navi di questa classe erano le più complete e le più grandi unità navali mai possedute dal Regno d’Italia.
Nel 1940, all’epoca della loro entrata in servizio, erano tra le più potenti navi da battaglia del mondo (come artiglieria), in quanto la classe South Dakota statunitense, pur avendo l’armamento principale di calibro maggiore rispetto alla classe Littorio, aveva una gittata minore.
La nave Roma venne armata con 7 diverse tipologie d’arma, dai cannoni pesanti (utilizzanti un sistema di puntamento sviluppato dallo stesso ammiraglio di squadra Carlo Bergamini) fino alle mitragliatrici per il tiro contraereo. L’armamento principale era costituito da nove cannoni 381/50 Mod. 1934, posizionati in tre torri mosse ad azionamento elettrico, che sparavano proiettili di 885 kg (perforanti) e 774 kg (esplosivi) con un alzo massimo di 36° alla velocità iniziale di, rispettivamente, 850 m/s e 870 m/s, capaci di colpire alla distanza di 44.6 km. Oltre a questi, la corazzata ospitava come armamento secondario antinave: dodici cannoni da 152/55 Mod. 1936 in torri trinate (usati anche per lo sbarramento antiaereo) dodici cannoni antiaerei da 90/50 mm in installazioni singole e quattro da 120/40 mm per tiro illuminante, più venti cannoni Breda 37/54 mm (in otto installazioni binate più quattro singoli) e ventotto mitragliere antiaeree da 20/65 mm (in quattordici installazioni binate). Secondo alcune fonti, invece, sarebbero state presenti trentadue mitragliere in sedici installazioni binate. I cannoni da 90/50, di tipo duale (antiaereo ed antinave) a caricamento manuale ed elevazione massima di 75°, avevano una gittata massima con alzo 45° di 15.548 metri (antinave), stimata in 13.000 secondo altre fonti, ed una tangenza di 9.000 metri (antiaerea), 10.500 secondo altre.
La Roma aveva, a differenza delle altre navi corazzate, la corazza di murata costituita da due strati di piastre di acciaio inclinate, a differenza di tutte le altre costruzioni mondiali che montavano piastre verticali. Quella principale, che a centro nave era di 350 mm, scendeva a 207 alle estremità, seguita da una secondaria di 36 mm. La compartimentazione e il bilanciamento interno assicuravano buona stabilità e galleggiabilità anche nel caso in cui le navi corazzate fossero state colpite da siluri, come dimostrarono le vicende belliche. La protezione dagli attacchi subacquei era ottenuta tramite il sistema dei Cilindri Pugliese, ideati appunto dall’ingegnere e generale del genio navale Umberto Pugliese.
I Cilindri Pugliese erano formati da contenitori di 3.80 m di diametro e 120 m di lunghezza, collocati all’interno di un’intercapedine tra lo scafo interno e la murata esterna e riempiti con acqua o nafta. In caso di esplosione di mina o siluro, la potenza d’urto sarebbe stata distribuita in tutte le direzioni, diminuendo i relativi danni. La sua propulsione era a vapore, con quattro gruppi turboriduttori alimentati dal vapore di otto caldaie di tipo Yarrow alimentate a loro volta da nafta. All’interno di queste caldaie, l’acqua di alimentazione si preriscaldava passando attraverso tubi investiti da gas di scarico, sfruttando in maniera più efficiente il calore sprigionato dai bruciatori. L’apparato motore forniva una potenza massima di 130 000 – 140 000 cv e consentiva alla nave di raggiungere la velocità massimo di 31 nodi, con un’autonomia che ad una velocità media di 20 nodi era di 3920 miglia. Tuttavia, la velocità massima poteva essere raggiunta solo per brevi periodi e solo impiegando la “extrapotenza” di 160 000 cv. Le quattro turbine erano collegate a quattro assi datate di eliche tripale (due centrali e due laterali), mentre il sistema di governo era costituito da un timone principale poppiero, investito del flusso delle eliche poppiere centrali e da due timoni ausiliari laterali, distanziati dal primo e situati nel flusso delle due eliche laterali, che costituivano il governo di emergenza della nave.
La nave Roma, l’unica che della sua classe e diversa dalle altre navi corazzate dell’epoca, disponeva di un impianto radar di tipo EC3/ter “Gufo”, fu il primo radar italiano a trovare impiego operativo. Esso operava nella banda tra i 400 ed i 750 Mhz (40 – 75 cm) attraverso la tecnica della modulazione di frequenza.
La R. N. Roma era una vera e propria fortezza galleggiante, i suoi interni (stando ad alcune testimonianze di marinai) erano molto accoglienti. Fu, infatti, definita dagli stessi: “Bellissima e potentissima”. Purtroppo il suo destino non fu dei migliori, ma fu sicuramente il più eroico. La ricerca e la corsa agli armamenti con lo sviluppo di nuove tecnologie belliche fecero della Roma una vittima del progresso.
Successivamente all’armistizio dell’8 settembre, la flotta navale si trovava a La Spezia, pronta a muoversi per andare a contrastare lo sbarco degli alleati sulle coste Salernitane. La notizia della firma del Re cambiò i piani e l’ammiraglio venne avvertito delle nuove clausole imposte dall’armistizio. Esse consistevano nel trasferimento immediato delle navi italiane a Malta, dove sarebbero rimaste in attesa di conoscere il proprio destino e durante tale trasferimento, avrebbero dovuto innalzare i pannelli neri sui pennoni e disegnare due cerchi neri sulle tolde, in segno di resa. Queste condizioni mandarono su tutte le furie l’ammiraglio Bergamini che accettò con estrema riluttanza gli ordini, solo dopo che ebbe l’assicurazione dell’esclusa consegna delle navi e dell’abbassamento della bandiera. Si assicurò, inoltre, che il generale Vittorio Ambrosio fosse sceso a patti con agli angloamericani, affinché la flotta (per motivi tecnici) potesse trasferirsi all’isola sarda de La Maddalena, dove tutto era pronto per l’ormeggio delle navi e dove si sarebbero trovati il re Vittorio Emanuele III e gli esponenti del governo.
Le navi corazzate italiane, purtroppo, erano sprovviste di copertura aerea e, sottovalutando la Lufwaffe, decisero di mollare gli ormeggi alle 03:00 di mattina del 9 settembre 1943, con direzione La Maddalena. Alle ore 15:00, la flotta situata nella zona del golfo dell’Asinara, in asseto di navigazione, precedentemente ricongiunta ad un gruppo navale di Genova, venne raggiunta dai bimotori Dornier che in quel giorno utilizzarono un nuovo ordigno teleguidato di tipo Ruhrstahl SD 1400 (conosciuta anche come Fritz X) il quale riuscì a penetrare la corazzatura del ponte nella zona tra lo torretta e la plancia di comando, andando ad esplodere nella zona dove erano situate le munizioni, generando un’esplosione devastante. A prua si allagarono i locali caldaie causando l’arresto della nave e i depositi munizioni deflagrarono. Cessò l’erogazione dell’energia elettrica e la torre numero 2 (costituita da canoni da 381 mm) saltò in aria con tutta la sua massa di 1500 tonnellate. La torre corazzata di comando fu investita da una tale vampata di fuoco (sviluppatasi fino a 1500m d’altezza) che fu deformata e piegata dal calore. Il tragico evento causò diverse vittime, tra queste possiamo ricordare: l’ammiraglio Bergamini e il suo Stato Maggiore, il comandante della nave Adone del Cima e buona parte dell’equipaggio (morti pressoché all’istante). Il relitto della Roma dal giorno del suo affondamento non fu mai trovato, sino al 17 giugno del 2012 in cui venne localizzato a circa 16 miglia dalla costa e ad una profondità di 1000 metri.
Di questa fortezza, ormai relitto, non rimane altro che il glorioso ricordo di essa e del suo eroico equipaggio. Come di consueto, con l’immaginazione cerchiamo di cambiare il corso della storia ed ipotizziamo che il 9 settembre del 1943 quell’ordigno non fosse stato utilizzato, provando a presupporre quali sarebbero stati gli effetti di tale fantasioso evento. Purtroppo non ci è dato sapere altro rispetto a quello che già sappiamo, perché come è noto la storia è fatta di testimonianze, non di presupposizioni.
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